Perché scattiamo fotografie?

Prima ancora di iniziare a parlare di diaframmi, lunghezze focali e composizione, è questa la prima domanda che sono solito fare durante i miei corsi. E quasi nessuno riesce a rispondere senza averci riflettuto per qualche minuto (o nei casi “peggiori” qualche lezione J ).
Non ci sono risposte esatte o sbagliate a questa domanda, vale tutto:
Perché mi piace;
Perché mi hanno regalato la reflex;
Perché lo fanno tutti i miei amici;
Perché lo faceva mio padre-mamma-nonno-zio;
Perché con la reflex al collo mi sento figo.
E così via…
Ognuno di questi è, alcuni con una generosa dose di buona volontà, un valido motivo. Ma neanche tutti insieme sono sufficienti. E sicuramente nessuna di queste motivazioni ci spianerà la strada che ci porterà ad avere un approccio che ci permetterà di fare foto migliori, belle e significative sia per noi che per chi le guarda. A dire il vero, nella mia esperienza, ho scoperto che una sola risposta ha in sé tutto quello che serve per poter aspirare a risultati che siano qualcosa di più:
“Io scatto fotografie perché ho qualcosa da dire”.
Perché è qui che sta il trucco (uno dei tanti): la fotografia è un mezzo, non un fine. Se non abbiamo niente da dire, se non sentiamo nessuna urgenza comunicativa o espressiva, allora la nostra fotografia sarà sempre “bella senz’anima”. E potrà godere della tecnica più raffinata, della composizione più perfetta, ma rimarrà trasparente.
E’ questo forse il primo passo da fare, il più importante: fare proprio il concetto che la fotografia è un mezzo, e serve ad esprimere nel migliore dei modi qualcosa che assolutamente non è essa stessa.
La tecnica, si: è talmente fondamentale ed essenziale che la dobbiamo dare per scontata, ne dobbiamo essere padroni, dev’essere tutt’uno con la nostra mano e il nostro occhio, e nel momento in cui la domineremo, nel momento in cui guardando nel mirino la nostra mano setti da sola la configurazione migliore, allora la nostra testa si potrò concentrare unicamente sul messaggio, sulla storia, sul motivo che in quel particolare momento, in quel punto preciso, ci ha fatto mettere la fotocamera tra il nostro occhio e quello che stiamo guardando.
Ma non vuol dire che chi non ha qualcosa da dire farebbe meglio a cambiare hobby: significa l’esatto contrario! L’ispirazione è ovunque attorno a noi. Educare lo sguardo a cogliere tutto ciò che ci circonda, senza fossilizzarsi nelle proprie abitudini, uscendo dalla comfort zone, è un processo lungo e tortuoso, ma non privo di gratificazioni e sicuramente propedeutico verso grandi soddisfazioni. E non finisce mai.
I fotografi analogici, da questo punto di vista, erano molto più preparati, soprattutto perché avevano un grande vantaggio. Difficilmente con il rullino avremmo visto qualcuno mettersi a fotografare i piatti di prosciutto agli aperitivi o qualsiasi smorfia facesse qualsiasi gattino di passaggio: il rullino costa, ha un numero finito di scatti e difficilmente si poteva postprodurre uno scatto in autonomia. E quindi ogni click andava ben ponderato, motivato, doveva essere (il più possibile) perfettamente eseguito, e richiedeva una riflessione preliminare che fissasse con esattezza gli intenti. Tutte cose che con il digitale, che ha fatto diventare tutti megafotografi con tanto di firma sulle foto, si sono perse.
Ecco quindi l’esercizio che vi propongo.
Settate la macchina per produrre JPEG e non RAW (dobbiamo simulare l’assenza di camera oscura);
Fate solo un numero finito di scatti, come se aveste un solo rullino:
Livello easy 36 scatti
Livello medium 24 scatti
Livello hard 12 scatti
Non andate in nessun caso oltre il numero di scatti che avete scelto e non cancellate nessuna foto.
Sono sicuro che questo esercizio vi sorprenderà, sia nel bene che nel male, e vi costringerà ad approcciare in modo diverso il momento dello scatto.
Spero nel mio piccolo di esser riuscito a fornirvi qualche nuovo stimolo, e mi piacerebbe avere da voi più feedback possibili.