Io la foto non la ritocco!

Quante volte vi è capitato di sentire (o dire, perché no…) la frase che fa da titolo a questo articolo? E sì, perché con l’avvento delle fotocamere digitali, una delle cose che più è stata stravolta è la percezione comune dell’intero processo produttivo che porta dal negativo alla foto sviluppata e poi alla stampa.
Soffermiamoci sul termine sviluppata, non tanto per il suo significato tecnico quanto per quello concettuale. Una cosa che si è sviluppata è una cosa che è progredita dal suo stato iniziale, che è migliorata, che ha accresciuto le sue qualità e attualizzato le sue potenzialità. Ed è questo che dobbiamo fare con le nostre foto: svilupparle.
Una foto va sempre sviluppata, il che vuol dire che gli va riservato un po’ del nostro tempo e del nostro saper fare anche dopo il momento dello scatto - come d'altronde è sempre stato dagli albori del nostro hobby preferito. Sbaglia quindi chi crede di essere un “duro e puro” per il solo fatto di proporre i suoi scatti così come sono usciti dalla sua reflex: anzi, mi permetterei di dire che è una mossa antistorica, un inutile sofisticazione e un atteggiamento per niente lungimirante.
E l’unica spiegazione davvero necessaria è il semplice fatto che nessuna reflex, né passata, né presente o futura, potrà mai eguagliare la performance e la resa del più perfetto strumento di visione esistente: i nostri occhi.
Nessuna reflex sarà mai in grado, da sola, di riprodurre fedelmente quello che abbiamo visto come lo abbiamo visto. Per questo la dobbiamo aiutare, elaborando il file da lei prodotto per renderlo il più fedele possibile alla nostra visione. E ripeto, non è una novità: per convincersene basta leggere qualsiasi cosa scritta da Ansel Adams, sempre pronto ad ammettere che nella sua vita ha passato più tempo in camera oscura che in giro, o cercare su google i provini che Richard Avedon mandava al suo fidato stampatore con scritti sopra a pennarello i ritocchi che voleva lui facesse. I più grandi di sempre erano prima di tutto dei grandissimi stampatori di sé stessi, ma gli altri dovevano per forza affidare il risultato finale a qualcun altro, affidabile o meno che fosse.
Forse è questo il motivo che porta le persone a credere che il fotoritocco sia una novità del digitale con un alone quasi di “oltraggio”: il fatto che il 99% dei fotografi mandava “allo stampatore” i rullini così come erano e non aveva modo di intervenire ulteriormente.
Ma per i professionisti non è mai stato così.
Raggiungere i risultati che tanto ammiriamo sui libri e sulle riviste, o la qualità delle foto dei nostri idoli è, senza un sapiente lavoro di post produzione, semplicemente impossibile.
Una delle novità introdotte dal digitale che mi piacciono di più, invece, è il fatto che ha portato tutto il processo produttivo nelle mani del fotografo: adesso tutti abbiamo a disposizione la nostra camera oscura personale, o “camera chiara”, e manteniamo quindi il totale controllo sul nostro scatto, fino alla stampa finale. E la cosa difficile, nell'utilizzo della nostra camera chiara, non è tanto capire come fare ad ottenere un certo effetto sulla nostra foto - per quello bastano un po’ di prove “curiose” - quanto piuttosto capire cosa davvero serve, alla nostra foto, per esprimere tutto il potenziale della scena che abbiamo visto quando abbiamo fatto click. Capire quali istruzioni avremmo dato noi, col pennarello, al nostro fidato stampatore. E più scattiamo, più prove facciamo davanti al PC, più queste cose ci saranno chiare, con il fenomenale effetto collaterale di permetterci di “vedere” già in fase di scatto quello che poi andremo ad introdurre successivamente in camera chiara.
D’altro canto però, ciò non vuol dire che siamo autorizzati a fare qualsiasi “porcata” ci venga in mente, o che il fatto di poter correggere (quasi) tutto in camera chiara ci debba rendere indulgenti in fase di scatto e ridurre il nostro impegno. Senza contare che il pericolo di esagerare con le nostre nuove scoperte è sempre dietro l’angolo, e tipicamente gli errori più comuni di chi si avvicina alla camera chiara sono alcuni degli effetti sparati a palla come se non ci fosse un domani.
Le cose “lecite” nell'ambito del fotoritocco sono, secondo me, né più né meno le stesse che si potevano fare in camera oscura armeggiando con ingranditori, vaschette e solventi. È questo il motivo per cui preferisco programmi come Lightroom al ben più potente Photoshop: il primo non permette di “imbrogliare”, concedendoci di rimanere nell'ambito della pura fotografia senza sfociare negli artefatti tipici della grafica o dell'illustrazione. Riguardo all'esagerare invece la situazione è più spinosa e meno oggettivamente identificabile, ma la soluzione è la solita: sapere quello che si va a fare e farlo con cognizione di causa, studiando e osservando chi ne sa più di noi.
Mi piace pensare al RAW come ad uno spartito: è la nostra sapiente ed edotta interpretazione a renderlo vivo ed emozionante per chi “ascolta”. Senza la nostra interpretazione, rimane un freddo foglio con tanti ghirigori.
Spero di avervi convinti del fatto che per raggiungere determinati risultati, conoscere le tecniche di postproduzione è necessario tanto quanto la padronanza delle tecniche di scatto, e vi saluto con una citazione che secondo me rende molto bene l’idea.
"You don't take a photograph. You make it."
Ansel Adams
